Ecco il primo contributo di Ilaria, che ci presenta il suo resoconto del mese di aprile come volontaria del Servizio Civile (Caschi Bianchi) in Serbia. Questa prima pagina del suo diario è dedicata ad una presentazione della realtà in cui si è ritrovata: un Campo di accoglienza per i profughi e richiedenti asilo nel mezzo di una foresta...
Mi trovo catapultata in Serbia, e dentro questo Stato così vicino ed insieme così nuovo e sconosciuto mi trovo in un suo angolo remoto. Ogni giorno da questo angolo remoto chiamato Valjevo mi reco con le mie colleghe in un posto ancor più isolato e, se ci si attiene al bosco in cui è immerso, fiabesco. Questo è il campo di Bogovadja, in cui vivono richiedenti asilo dalle molte provenienze. La più presente è sicuramente quella iraniana, e così in un mese questa bellissima lingua che è il farsi inizia a suonare famigliare alle mie orecchie, molto più del duro serbo. Quando si inizia a conoscere la vita all’interno di questo limbo si capisce che di fiabesco non ha poi molto, ed anzi le persone che ci si trovano rimangono qui in attesa di riuscire a proseguire il loro viaggio, o di ottenere una risposta dalle istituzioni serbe che si occupano di analizzare le richieste d’asilo.
Mi chiamo Ilaria e sto svolgendo un anno come casco bianco in Serbia, a Bogovadja, dove vengono portate avanti attività incentrate sull'educazione informale. Da Bologna lo sbalzo è stato grande. In Serbia è difficile incontrare migranti di seconda o terza generazione, è addirittura difficile incontrare tratti diversi da quelli serbi. Nonostante ciò, si percepisce come questo posto sia un ponte tra Occidente e Oriente. L'Oriente sta nei profumi, nei sapori e negli occhi delle persone, contornati spesso da profonde rughe che vanno ad incastonare quelle perle lucenti. Le persone bloccate al campo sono giovani, spesso famiglie, alle porte della sognata Europa.
Tante, tantissime storie diverse appartengono a queste persone ed e' affascinante scoprirle piano piano. Queste storie mi avvolgono, sono storie che vengono da lontano e che devono ancora finire. sono storie tristi, arrabbiate, determinate, intelligenti. Portano stupore e nuove prospettive. Potrei stare ad ascoltarle per giorni interi. Lo scambio tra caschi bianchi e persone che abitano temporaneamente il campo sembra non essere equo: proposta di attivita' per migliorare la qualita' del tempo che si vive in questo spazio contro la condivisone di esperienze e storie che radicalmente, e in pochi momenti, riescono a sconvolgere e fare ripensare la realta’.
Poi succede, qui dove non succede mai nulla ed il tempo perde significato, proprio peche' a scandirlo pare essere il nulla dell'attesa, che un ragazzo iraniano decide di insegnare a tutti l'inglese. Lo parla perfettamente e con un accento british, chissa' quali le storie che lo hanno condotto fino a qui. Da solo dice di non avere pazienza, e chiede a Cecilia, la mia collega casco bianco, di aiutarlo e supportarlo in questa impresa. Io decido di entrarci come studentessa e mi accorgo della grandezza della cosa. Siamo in dieci, donne e uomini, e facciamo conversazione. Cosi' ci conosciamo e impariamo insieme dalle basi. Anche i bambini sono benvenuti per fare in modo che le mamme sole non vengano escluse dal corso. “We have a little guest today!” “do you all know the meaning of guest?”
E cosi’, le persone si rendono parte attiva del loro destino e lo costruiscono giorno per giorno.
Noi caschi bianchi siamo una piccola parte di un mondo complicato, e in maniera altrattanto complicata contribuiamo a creare la parte in cui abbiamo deciso di stare, noi che almeno ne abbiamo avuto la facolta’.
Ilaria
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